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STORIA DI DONNE
(LES AILES DE LA COLOMBE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 febbraio 1982
 
di Benoit Jacquot, con Dominique Sanda, Isabelle Huppert, Michele Placido (Francia, 1980)
 
La colomba in questione è una giovane ereditiera, interpretata da Isabelle Huppert. È ricchissima e gravemente ammalata: accanto a lei, Dominique Sanda interpreta il ruolo di un'avventuriera d'alto bordo che, con l'aiuto del proprio amante (Michele Placido) cerca di impossessarsi della fortuna. Questa è la trama di uno dei più grandi romanzi di Henry James, così la riassume il regista stesso.

Ma le cose sono un po' meno semplici. Innanzitutto c'è il genio letterario di James probabilmente inadattabile allo schermo. E poi, senza voler entrare in merito all'annosa querelle, quella dei presunti tradimenti del cinema nei confronti della letteratura. Quando lo traduci in immagini, il fascino di James è fatto di parole scritte, e dello spazio mentale che esse provocano dentro di noi. Il cinema e fatto di immagini, di rapporti fra immagini. E lo spazio, o i fantasmi se preferite, che muove sono d'altra specie. Inutile, quindi, cercare dei paralleli,Il cosiddetto rispetto del cinema nei confronti dell'opera letteraria è una specie di mascherata che s'improvvisa su degli attori, di ricostruzione che si architetta sulle scenografie, ma che è pura illustrazione, decorazione di un'immagine letteraria.

Questo non significa che Henry James approdi per caso nel cinema di Benoit Jacquot, giovane regista del cinema francese, autore di una delle opere più significative degli ultimi anni, Les enfants du placard.Perché il suo cinema, volendo ad ogni costo ridurlo ad una somma, è fatto di tre passioni sovrapposte: quella per la letteratura anglosassone dell'inizio Ottocento, da James a Stevenson, da Conrad Melville. Quella per un cinema americano ben connotato: Lang, Tourneur, Nicholas Ray e forse Hitchcock. E quella per una scrittura cinematografica che, in antitesi con le regole imposte ai giovani francesi della Nouvelle Vague, si richiami piuttosto allo stile cristallino di Robert Bresson. Per Jacquot conta "il fascino della finzione. Come raccontare in immagini e suoni una storia, che finisca col creare una meccanica. Una meccanica che condizioni lo spettatore fino al termine". Ecco spiegato Les ailes de la colombe. Il fascino della finzione viene dallo splendido romanzo di James; e quello del gioco stilistico, della meccanica che non giunga mai ad un risultato finito (se non con l'interruzione materiale della proiezione), che rinvii in eterno i significati, conduce direttamente a Bresson. Una Venezia gaia e multicolore fino all'anonimato (in contrapposizione all'uso tradizionale, Venezia - decadenza e degenerazione materiale = degradazione morale dei personaggi) fa da sfondo a questa vicenda di amore impossibile. Oppure di calcolo cinico: l'interesse del film sta appunto nella sua ambiguità, nell'impossibilità di giungere ad una conclusione, di chiarire i rapporti fra i personaggi, l'evolvere della finzione.

A Henry James interessava il personaggio della giovane malata, la colomba ingannata (?) che stende egualmente le proprie ali protettrici su coloro che la circondano. A Jacquot interessano i rapporti fra i personaggi, il gioco ad incastri, imprevedibile, che fa progredire la storia, che cattura l'attenzione dello spettatore. Jacquot ha così filmato gli sguardi. Tutto si organizza e progredisce nella direzione di uno sguardo. Tutto si comprende, o si rimette in questione sul filo di questi sguardi che legano i tre protagonisti. Les ailes de la colombe è un film, lo avrete compreso, scritto con grande attenzione: e come sempre in questi casi finisce col nascere "qualcosa" fra le immagini. Proprio perché l'imprevedibile, il misterioso, il poetico in cinema nasce in quello spazio indefinito e indefinibile che separa un attore da un altro, un elemento dell'ambiente da un altro, un'inquadratura da un'altra. E già molto, nel quadro disastrato del nuovo cinema francese, e anche non francese. Ma e anche vero che non tuffo fila liscio nel film. Che è la prima grossa produzione di un regista che aveva girato in precedenza due film al risparmio. Da un lato, questo, e non tanto paradossalmente, gli giova. Perché lo avvicina ad un'estetica, ad un modo di lavorare che è simile a quella del genere al quale il film si richiama, il melodramma americano. Dall'altro, gli crea dei problemi, nella scelta imposta degli attori, ad esempio. Perché se Dominique Sanda è meravigliosa di ambiguità, non altrettanto si può dire degli altri interpreti, a cominciare dalla Huppert la cui immagine richiama un certo tipo di qualità Gaumont piuttosto che il personaggio interpretato. Pensare in grande non è facile, specie se non si e sorretti da una struttura e da una tradizione "grande" come quella americana degli autori cari a Benoit Jacquot. Proprio ispirandosi ad uno scrittore americano assurto al genio nell'incontro con una cultura europea, un regista europeo ritraccia il cammino inverso. Con le difficoltà del caso.


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